I trecento anni dei Concerti Brandeburghesi
di Denise Alcaro
Sono passati ben Trecento anni da quando i Concerti Brandeburghesi hanno lasciato un solco profondo e significativo nella storia della musica occidentale e ancora oggi racchiudono alcune delle pagine musicali più interessanti a livello storico ed interpretativo.
Il trentaseienne Johann Sebastian Bach, nel 24 marzo 1721 scriveva di suo pugno la dedica a Christian Ludwig Margravio di Brandeburgo sul frontespizio dei suoi nuovi Concerts avec plusieurs Instruments, che sarebbero poi passati alla storia come Concerti Brandeburghesi. Il Margravio aveva saggiato la perizia esecutivo-improvvisativa del Maestro di Eisenach un paio di anni prima, mentre quest’ultimo si trovava a Berlino per ritirare un cembalo per il Duca di Köthen. Entusiasta per ciò che aveva udito, aveva chiesto a Bach di spedirgli alcune composizioni, e oggi sappiamo che i lavori inviati nella missiva erano proprio i sei Concerti Brandeburghesi.
Bach lavorò ai Concerts durante la sua permanenza a Köthen, dove ricopriva la carica di Konzertmeister potendo usufruire di una delle migliori orchestre della Germania centrale. Proprio grazie ad essa avrebbe dato luce a composizioni sempre fresche e mai stantìe, che ancora oggi stanno sulla vetta delle opere “classiche” più amate dal grande pubblico. Probabilmente, senza una tale orchestra a disposizione questi concerti sarebbero stati molto diversi: tra le caratteristiche che rendono sorprendente il lavoro svolto da Bach con i Brandeburghesi, infatti, vi è l’abilità nel creare impasti timbrici inusuali con l’accostamento di strumenti ricercati. Per fare soltanto qualche esempio, si ricordi che nel primo concerto figurano i corni da caccia, strumenti insoliti divenuti simbolo di benessere della nobiltà proprio perché associati alla pratica della caccia che era, all’epoca, costosissima; nel terzo e nel sesto sono presenti solo archi con completa esclusione dei fiati, i quali, invece, compaiono in tutti gli altri concerti.
Ciò detto, vi sono aspetti tecnici – cancellature e imprecisioni nelle parti autografe – che fanno pensare che Bach avesse già iniziato a lavorare a tali composizioni orchestrali prima della richiesta del Margravio, tanto che il musicologo Peter Williams, in una recente biografia bachiana, avvalora l'ipotesi che alcuni movimenti dei Concerts siano stati compositi in tempi diversi e che alcuni risalgano, addirittura, agli anni trascorsi a Weimar per poi essere rivisti durante la permanenza a Köthen.
Non di minore importanza è la struttura dei concerts, che orbita intorno alla presenza di uno o più solisti, accompagnati dal resto del gruppo, il che colloca i Brandeburghesi in un contesto non assimilabile al genere del concerto grosso, ampiamente diffuso con Vivaldi e Corelli, ma al vero concerto solistico. I concerti sono innovativi anche per la capacità di condensare modelli estetici italiani, francesi, tedeschi, e per l’abilità nel far convivere tecniche polifoniche, omofoniche e contrappuntistiche.
Il Quarto Concerto (in sol maggiore) è costruito sul dialogo continuo tra il violino e i due flauti, denominati in partitura “fiauti d’echo” e riconducibili al flageolet (un flauto a becco costruito con legno e avorio dal timbro ben differente dal flauto dolce). Il gruppo di ripieno è composto invece da due violini, una viola, un violoncello, un violone e il basso continuo, e lascia tutto il virtuosismo ai solisti impegnandosi a creare un tappeto armonico di sostegno molto morbido. Il secondo movimento elegge il flauto ad unico solista, il quale in due occasioni fa sfoggio alla sua brillantezza. Il terzo, infine, usa la scrittura fugata (così come i tempi conclusivi dei due concerti successivi), e il contrappunto si interrompe soltanto per dare spazio alla bravura del violinista.
Il Quinto Concerto (in re maggiore) è celebre per l’intervento solistico del clavicembalo, che ne è assoluto protagonista (insieme al violino e al flauto), e per l’utilizzo di un violino solo nell’orchestra, a fronte dei due impiegati nel ripieno degli altri concerts. Di questo concerto esistono tre versioni, realizzate in anni differenti, ciascuna delle quali reca un progressivo ampliamento della cadenza clavicembalistica: nella prima versione si contano 18 battute per la cadenza, nell’ultima sono ben 65. Ragione di questa implementazione è proprio l’interesse di Bach a sfoggiare le possibilità sonore e tecniche del cembalo recentemente acquistato per il suo Principe durante il suo fortunato soggiorno a Berlino. Un occhio attento, infatti, può osservare come la cadenza sia un elemento strutturalmente imprescindibile nell’economia complessiva del Quinto Brandeburghese, e proprio questo suo essere un elemento necessario e non gratuito fa sì che non la si annoveri nel catalogo delle improvvisazioni, affidate all’esecutore in chiusura di movimento, bensì la elegge a vero e proprio passaggio di elaborazione consequenziale al tema esposto in apertura del primo movimento. Questa cadenza, oltre ad essere un unicum nella produzione bachiana, rappresenterà una pietra miliare per la nascente tradizione legata al concerto per strumento a tastiera (poi pianoforte) e orchestra.
Il Sesto Concerto (in si♭ maggiore), che compare per ultimo nella raccolta, in realtà è stato scritto per primo e — così come il Terzo — vede al centro della scena il solo impiego degli archi, escludendo completamente la sezione dei fiati. L’organico conta due viole da braccio, due viole da gamba, un violoncello e il basso continuo, a sua volta costituito dal violone e dal clavicembalo: mancano le sonorità più acute dell’orchestra, che si colora qui di tonalità calde e di impasti corposi. Singolare è il secondo tempo, la cui struttura è assimilabile ad una sonata a tre in cui il violoncello, in competizione con le viole da braccio, contrappunta in maniera quasi ostinata la melodia dei solisti.